SPARTACO, IL GLADIATORE CHE FECE TREMARE ROMA di Domenico Della Monica (seconda parte)

 

 

Il capo dei gladiatori di Capua, che sollevò e organizzò gli schiavi nella terza guerra servile contro Roma e morì eroicamente in battaglia, ha dato origine a un mito destinato a durare nei secoli. In lui gli oppressi di ogni Paese videro il simbolo della riscossa.

                                                                          (Domenico  Della  Monica)

(seconda parte)

La fuga dei gladiatori è stata scoperta. Un ammutinamento di schiavi è intollerabile per la società romana. I magistrati di Capua mettono subito la milizia – fanteria e cavalleria – alle calcagna dei fuggiaschi. Dopo il colpo di mano contro il carro, dopo essersi impossessati delle armi, il manipolo di gladiatori assume sempre più consistenza. Al loro passaggio, molti servi e schiavi dei vari villaggi si uniscono: la loro forza comincia a farsi preoccupante. La milizia romana, intanto, è sulle loro tracce, la cavalleria è pronta a riacciuffarli: non sarà difficile sconfiggerli e riportarli in catene. Ma i romani si sbagliano. Il primo scontro vede i soldati cedere alla furia dei gladiatori che da mesi, alcuni da anni, si addestrano quotidianamente a ogni tipo di esercizio con le armi. E’una vittoria completa.  L’eco della sconfitta romana arriva a Capua, alla scuola di Batiato, dove la reazione è violenta. Ormai si è capito che si tratta di un reale pericolo, da non sottovalutare: non si tratta più di un manipolo di ribelli fuggiaschi, ma di un piccolo esercito ben addestrato. Un esercito guidato da un capo carismatico: è così che nascono le rivoluzioni, e si fa strada il disordine. E di disordine non c’è affatto bisogno.

La società romana sta attraversando un momento difficile, appena uscita da una guerra civile che ha visto lo scontro tra Mario e Silla. Imperversa la facile ricchezza, molti cittadini romani indulgono all’ozio e alla mollezza. Si è presa l’abitudine di trasformare i prigionieri in schiavi e poiché, dati i frequenti conflitti, si fanno molti prigionieri, ne deriva un’enorme massa di schiavi. In Senato non si sottovaluta il pericolo costituito dalla presenza di questi uomini ridotti in schiavitù, sparsi su tutto il territorio della Repubblica. Basterebbe una scintilla per incendiare questo potenziale esercito. Fino ad allora si erano avute soltanto delle rivolte isolate, rapidamente sedate. Ma questa volta? Questo Spartaco ha forse un piano, persegue un suo ideale? E se il suo gesto si rivelasse contagioso? E’necessario che l’evasione dei gladiatori di Capua non si propaghi a macchia d’olio. Occorre al più presto neutralizzarli, e crocifiggerli: un severo monito per tutti gli schiavi. Intanto anche i centotrenta gladiatori rimasti nella scuola di Capua evadono, li guida un certo Criso. Battono nelle campagne, ingrossano le loro file, vogliono raggiungere ed unirsi a Spartaco. A Roma la preoccupazione dilaga: cosa non possono fare questi uomini ben armati e animati da una feroce volontà? Il Senato corre ai ripari: invia una coorte di tremila soldati al comando di Claudio Glabro, una forza enorme se confrontata con le poche centinaia di schiavi guidati da Spartaco. Questi si rende ben presto conto che stavolta non sarà in grado di resistere. L’unica possibilità di salvezza è quella di trincerarsi in un luogo fortificato. Ma dove trovarlo? Spartaco ha un’idea geniale: rifugiarsi all’interno del cratere del Vesuvio. Proviamo ad immaginare cosa possa essere l’interno di un vulcano spento in piena estate, con la terra che arde, i vapori che salgono dal fondo, un sole spietato che acceca, e senza acqua. Glabro ha raggiunto e circondato le pendici del vulcano. Sa che la fame e la sete alla fine costringeranno i ribelli ad arrendersi. Anche Spartaco lo sa. Passano i giorni, e le notti. Si spera in un po’ di pioggia, ma il cielo rimane impassibile, e la sete tortura i ribelli. Alcuni cominciano a vacillare, e sarebbero pronti ad arrendersi. E’ allora che interviene la ragazza tracia: li rincuora, li invita a resistere, cedere significa andare incontro ad una morte atroce; Spartaco finora li ha sempre guidati alla vittoria, bisogna avere fiducia e resistere. Spartaco si rende conto che Glabro ha bloccato tutte le discese, ma ne ha lasciata scoperta una che scende a picco, che appare impercorribile. Sarebbero necessarie delle corde e delle scale, e i gladiatori ne sono sprovvisti. Ma Spartaco non si dà per vinto, ha un’idea. Sulle pareti del Vesuvio si coltiva tradizionalmente la vite. I suoi uomini si avventurano sui pendii, suscitando  da lontano l’ilarità dei romani: cosa ci vanno a fare lassù? A vendemmiare?, nel mese di luglio? L’ilarità raggiunge il colmo quando li vedono tagliare dei tralci e riportarli nel cratere. Vogliono accendere un fuoco? E per cucinare cosa? Ciò che non possono intuire i romani è che Spartaco, grazie a quei tralci, riuscirà a far confezionare le scale di cui hanno bisogno.

Una volta pronte, attendono la notte e le lanciano nel vuoto. Spartaco è il primo a discendere, sarà poi la volta di tutti gli uomini validi. Si ritrovano tutti alle pendici, dall’altra parte del vulcano. Col favore delle tenebre, Spartaco li guida fino all’accampamento romano. La sorpresa è fulminea, nessuno fa in tempo a lanciare l’allarme. I gladiatori irrompono nel campo e massacrano i soldati immersi nel sonno. Pochi riescono a sopravvivere, tra questi lo stesso Glabro. Corre verso Roma, dove il Senato gli infliggerà una severissima punizione: l’esilio e la confisca dei beni.

Spartaco ora è padrone del campo, con le sue scorte di carne, di grano, di vino e di denaro. Ormai, in tutta la regione e oltre, si diffonde la notizia di questa impresa che ha dell’incredibile. Ovunque gli schiavi esultano, spezzano le loro catene, ansiosi di unirsi a Spartaco.

L’idea iniziale di Spartaco era quella di marciare su Napoli, impadronirsi delle navi all’ancora e quindi prendere il largo. Era il sogno mai spento di andare lontano, il più lontano possibile, verso una terra dove poter vivere liberi, lontani dal giogo romano. Di fronte a questa marea umana accorsa sotto le sue insegne, sente che il progetto diventa irrealizzabile. Ogni giorno accorrono a centinaia, compresi donne e bambini. Si tratta di fuggiaschi isolati, schiavi. Quanti saranno ora? Impossibile stabilirne il numero. Di sicuro si tratta di molte migliaia. E, insieme agli schiavi, accorrono naturalmente anche i gladiatori da ogni parte d’Italia. Spartaco sa che per fare di quella informe moltitudine un esercito occorre una disciplina assoluta. E ci riesce, con successo. Riesce anche ad organizzare un corpo di cavalleria. Nel 72 a.C. domina l’intera regione.

Intanto a Roma cresceva l’inquietudine, non si trattava più di una semplice rivolta, era molto di più. Il Senato inviò due legioni al comando dei consoli L. Gellio e Lentulo Clodiano che riuscirono ad isolare le forze di Criso, braccio destro di Spartaco, e a sconfiggerle in una battaglia in terra di Puglia, dove trovò la morte lo stesso Criso. Intanto Spartaco aveva deciso di intraprendere la strada per l’Italia del Nord: aveva in animo di portare la sua moltitudine verso Nord, in Germania, in Gallia o in Illiria, un luogo dove vivere in pace, trasformare la sua moltitudine da schiavi e gladiatori in agricoltori. Nei pressi di Modena ebbe un duro scontro contro le forze di Gellio. Ebbe la meglio. Ma ben presto capì che valicare le Alpi era impresa impossibile. E decise di tornare a Sud, per stabilirsi ai confini tra Lucania e Campania.

Alla notizia del suo dietrofront a Roma lo sgomento e la confusione crescono, si diffonde il panico. Lo schiavo Spartaco vuole forse prendere Roma? Potrebbe farlo. Ma non lo fa. Sa fin troppo bene a quali rischi andrebbe incontro. Gli mandano contro il pretore Manlio, ma anche lui subisce la stessa sorte degli altri. Che fare? Finalmente in Senato si leva la voce di Crasso, l’uomo più ricco d’Italia. Quest’uomo ha un’unica passione: il danaro. Poiché i suoi beni sono in pericolo, e poiché lo sono quelli dei suoi pari, Crasso decide di affrontare Spartaco. Ma per fare ciò chiede i pieni poteri. Da anni la Repubblica era in crisi. Conservatori e democratici lottavano per il potere; le leggi agrarie venivano differite. Cicerone era uscito vincitore, ma carico di nemici, dalle orazioni contro Verre, governatore della Sicilia. Gli aristocratici, fino ad allora, erano vissuti sfruttando gli schiavi; l’ordine equestre si era arricchito con i commerci e la professione delle armi; il popolo viveva di piccoli traffici, dell’artigianato e soprattutto della munificenza statale.

E ora la ribellione dei gladiatori minacciava alle basi il sistema sociale. Senza il lavoro servile, l’economia della repubblica sarebbe crollata. Aristocratici e privilegiati di ogni sorta avrebbero dovuto dare un taglio alla vita agiata. Per questo accolgono con favore la proposta di Crasso. Che in breve tempo riesce a mettere su un esercito composto da dieci legioni. Crasso sapeva che l’osso era duro, aveva capito che non si trattava delle solite guerre servili, cioè di un’accozzaglia di schiavi ribelli facili da sbaragliare e punire. Si informò, forse da Lentulo Batiato, il titolare della scuola di Capua da cui era evaso il primo nucleo di schiavi, sul carattere e sul modo di combattere di Spartaco, e si rese conto che l’incarico si presentava tutt’altro che facile. Studia la tattica di Spartaco, e si rende conto che il gran numero di persone al suo seguito non gli permette più di muoversi con la celerità di un tempo. Ed è vero. Spartaco, che prosegue la sua marcia verso sud, si rende conto che non ce la farà mai se le legioni romane lo tallonano da vicino. E allora decide di dividere le sue forze in più tronconi, che affida ai suoi luogotenenti. Non è difficile per Crasso scatenare su di essi il peso delle sue legioni e batterli. Spartaco capisce la lezione. Raggiunge il sud della Puglia e si stabilisce a Turi, città fortificata. Non vi si trattiene a lungo. Intanto il trace ha inviato emissari ai capi dei pirati cilici che, da sempre, terrorizzano il mediterraneo ostacolando i traffici di Roma: vuole portare con le loro navi i suoi uomini in Sicilia, dove potrà rifornirsi di grano anche con l’aiuto della moltitudine di schiavi che hanno in animo di unirsi a lui; e forse ha intenzione di stabilirvisi, per dare vita ad una sorta di “società “fatta di uomini liberi.

La Sicilia, prima provincia romana d’oltremare, era anche la più importante. Terra fertilissima, l’isola forniva gran parte del grano di Roma ed era anche ricca di bestiame. Insomma, una sorta di terra promessa. Poiché l’isola nutriva le legioni, forse Spartaco pensò che poteva nutrire anche la sua gente. Inoltre, la Sicilia era stata da sempre la meta dei fuggiaschi d’Italia e sembrava pronta per la ribellione. Se si fosse impossessato dell’isola, Spartaco avrebbe potuto minacciare i rifornimenti alimentari di Roma. Sapeva anche che il trasferimento nell’isola avrebbe potuto salvare la sua moltitudine da Crasso, solo temporaneamente, perché era certo che il console non gli avrebbe dato tregua. Probabilmente Spartaco pensava di servirsi dell’isola come base temporanea, in attesa di trovare un numero sufficiente di navi che li avrebbe trasportati in nord Africa, distante dalla Sicilia solo 150 chilometri.

Intanto sono arrivati a Reggio (Calabria). Siamo alla fine dell’anno 72 a.C. Attendono con impazienza i pirati, si tratta di attraversare solo uno stretto tratto di mare: i loro capi si sono impegnati. Da un giorno all’altro le loro navi dovrebbero apparire all’orizzonte. In realtà, non arriveranno mai. Perché?

Verre, il propretore di Sicilia, celebre per le accuse che Cicerone promuoverà più tardi contro di lui, intrattiene benevoli rapporti con i pirati. Cicerone d’altronde non mancherà di rinfacciarglielo, mostrandosi così ingiusto, visto che proprio grazie a tali rapporti Verre aveva potuto salvare la Sicilia. Quando Verre viene a conoscenza che i pirati erano disposti a trasportare in Sicilia i ribelli di Spartaco, parla con i loro capi, li convince che non è nel loro interesse aiutare i ribelli e che, se vi avessero rinunciato egli, Verre, sarebbe stato loro riconoscente. Era come fargli capire che avrebbero potuto continuare impunemente nelle loro scorrerie. I capi dei pirati non hanno esitazioni, rinnegano la parola data a Spartaco. Intanto, in attesa delle navi, l’esercito dei ribelli al completo si è accalcato sullo Stretto. Crasso, nel frattempo, si è avvicinato e si rende subito conto che per la prima volta Spartaco è alla sua mercè. Fa sbarrare lo stretto con un gigantesco vallo tra le coste del Tirreno e quelle dello Jonio. Decisione folle e dispersiva: Spartaco riesce senza troppa difficoltà a passare. L’esercito di ribelli, braccato dalle legioni, viene raggiunto e attaccato in Lucania. Ma Spartaco ha la meglio.  Nel frattempo Pompeo, richiamato dal Senato dalla Spagna si avvicina a tappe forzate al teatro delle battaglie. E Crasso per impedire che il rivale cogliesse la vittoria, gioca il tutto per tutto contro il nemico in una battaglia nei pressi del monte Cantenna, nella Lucania settentrionale. E ottiene una vittoria schiacciante. A questo punto, Crasso crede di avere il nemico in pugno, lo incalza con i suoi luogotenenti Quinzio e Scrofa. Lo scontro segnerà una cocente sconfitta per Crasso. Quest’ultimo successo segnerà la rovina di Spartaco, scrive Plutarco, perché “l’orgoglio si impadronì dei suoi schiavi”. Credono ormai di essere invincibili e insistono con Spartaco: con Pompeo in arrivo dalla Spagna è meglio affrontare subito Crasso. Spartaco riflette, in contrasto con una parte dei suoi luogotenenti, cerca di aprire una trattativa con Crasso: chiede di poter uscire con le sue forze dall’Italia, dove cercheranno una terra libera dal dominio romano e vivere in pace. La trattativa, naturalmente, fallisce: Crasso vuole annientare, distruggere Spartaco e il suo seguito. A questo punto, Spartaco decide di muovere il suo esercito e si dirige verso Brindisi, ma una grave notizia ferma la sua marcia: il console Marco Lucullo vi è sbarcato con le sue legioni. A questo punto Spartaco capisce che è la fine, vana ogni speranza, e conduce il suo esercito giù per la valle dell’alto Sele, in Campania. Consapevole, unitamente ai suoi uomini di andare incontro alle loro Termopili, verso   l’ultima, disperata battaglia.

Oliveto Citra (località situata nella valle dell’Alto Sele, tra i monti Picentini) e Giungano (poco lontana da Paestum) si contendono l’onore di essere il sito dell’ultima battaglia di Spartaco. La maggior parte degli studiosi propende per la prima località.

Il Sele fu una battaglia epica che coinvolse oltre 60.000 uomini, dove l’esercito di ribelli cedette, e dove Spartaco morì combattendo. Il suo corpo probabilmente finì in una fossa comune, un anonimo ammasso di carne.

Crasso fece seimila prigionieri (un numero imprecisato di schiavi riuscì a sfuggire alla morte in battaglia). Seimila croci celebreranno il suo ritorno lungo la strada da Capua a Roma. E sopra queste croci verranno inchiodati i seimila prigionieri. Il Senato voterà per Crasso il trionfo.

Come ha scritto Tacito, di Spartaco si parlerà a lungo in Italia: la sua memoria sarà viva sia tra gli oppressori, che avevano tremato, che tra gli oppressi, che avevano creduto alla loro liberazione. Gli schiavi continueranno a subire, ad attendere, talvolta a sperare.

Colui che un giorno avrebbe pronunciato nei loro riguardi parole d’amore, il Cristo, troverà tra gli schiavi e gli ultimi i suoi primi fedeli e i suoi migliori proseliti.

Bibliografia

  • Lewis Grassic Gibbon SPARTACUS  Milano 1973
  • Howard Fast SPARTACUS
  • Guarino    Spartaco      Napoli 1979
  • Dogliani       Spartaco, la ribellione degli schiavi  Milano ‘97
  • Testi di Sallustio, Tito Livio, Appiano.

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