ROBERT LUIS STEVENSON E L’ISOLA DEL TESORO di Domenico Della Monica – (seconda parte)

(Seconda parte)

Da allora divise la propria esistenza fra la scrittura, la cura di una piccola azienda agricola e l’assistenza ai nativi del luogo. Contando del suo prestigio di scrittore di grande successo, diede inizio ad una dura lotta contro quei funzionari coloniali, specie americani e tedeschi, che carpivano la buona fede degli indigeni e diffondevano fra di loro il vizio dell’alcool. In breve, divenne una sorta di nume tutelare per gli isolani, che lo ribattezzarono con l’appellativo di Tusitala, cioè “narratore di storie”: la strada che portava alla sua villa venne chiamata “La via dei cuori ardenti”. Fra le sue opere di quegli anni, vi sono gli splendidi racconti fantastici legati alle leggende locali o importate dai marinai, come “L’isola delle voci” e “La spiaggia di Falesà”.

Il 3 dicembre 1894, dopo aver preparato un’insalata per la cena di famiglia, improvvisamente si afferrò la testa e chiese alla moglie: “La mia faccia è cambiata?”. Morì, senza riprendere conoscenza, nel giro di poche ore per gli effetti di un ictus cerebrale fulminante, pianto dai lettori di tutto il mondo. Venne vestito con una camicia di lino bianco e calzoni neri da sera, cinti alla vita da una sciarpa di seta blu scura, aveva una cravatta bianca e scarpe di vernice nera. Così, quasi in abito da cerimonia, mentre davanti a lui centinaia di indigeni, armati di picconi e di machete, tra la fittissima vegetazione creavano il sentiero che porta sulla vetta più alta dell’isola, il Monte Vaea dal quale si domina il Pacifico, Stevenson fu sepolto. In silenzio, gli indigeni si snodarono lungo il sentiero da loro aperto e, spalla a spalla, si passarono la bara fino alla cima del monte.

 

 Veniva così rispettato l’ultimo desiderio di Tusitala.

Stevenson riposa ancora lì. Sulla sua tomba, tre versi della sua poesia Requiem:

“Qui riposa, dove desiderava riposare: dal mare è tornato nella sua casa il marinaio. Dalle colline è tornato il cacciatore.”

 

 

Stevenson, per noi che lo amiamo da sempre, non è mai morto: torna sempre a noi nello splendore della sua opera.

                                                         L’isola del tesoro: paura, mistero, avventura

Quanti di noi, bambini, non sono mai andati in cerca di un tesoro nascosto? Pochi, tanti? Di sicuro, per Stevenson, chi non è mai andato a caccia del tesoro, non è mai stato bambino. E non possiamo non dargli ragione. La caccia al tesoro è un gioco straordinario, bellissimo, affascinante. E che nel ventre di un’isola ci potesse essere un tesoro nascosto a me sembrava credibile, anzi certo. Il primo approccio con “L’isola del tesoro” lo ebbi nel lontano 1959, avevo poco più di otto anni. Era il 7 febbraio quando, di sabato sera, andò in onda la prima delle cinque puntate del romanzo di Stevenson, seguito da un pubblico misto di adulti e bambini che ottenevano il permesso di andare a letto un’ora dopo “Carosello”. Era il primo sceneggiato di ambiente marinaro, ma che il regista Anton Giulio Majano girò miracolosamente tutto in studio. Poi, qualche tempo dopo, in quinta elementare, lessi il libro: era un libro bello, bellissimo, vero. Da allora il romanzo mi ha fatto compagnia sempre, mi ha regalato, e mi regala, momenti di felice nostalgia. E sono pienamente d’accordo con Jorge Luis Borges quando scrive che “leggere l’Isola del tesoro è una delle forme di felicità”.

Quell’isola faceva paura, era dannata, spaventosa, tremenda. Ed era giusto e logico che fosse così perché se così non fosse stato il romanzo sarebbe venuto meno al suo scopo: esercitare nell’animo del lettore una sorta di magia, che mescolava attrazione e ripulsa, fascino e terrore. La paura è una delle passioni più forti nell’animo infantile (e non solo), insieme alla meraviglia. E nel romanzo paura e meraviglia vanno a braccetto, a ritmo incalzante. Già dall’inizio, nella locanda che Jim e la madre gestiscono, la paura prende corpo nella persona di un lugubre bucaniere che un giorno vi arriva. Un uomo che al piccolo Jim sembra alto, robusto, il viso bruciato dal sole, le mani ruvide, le unghie rotte e nere, una guancia sfregiata da un colpo di sciabola, con la cicatrice di un bianco sporco. Quest’uomo porta con sé un baule, che somiglia tanto ad una cassa da morto. Non dice il suo nome, è sospettoso, si guarda continuamente in giro, parla poco. Ogni giorno si reca sulla scogliera e col cannocchiale scruta l’orizzonte, sembra aspettare o temere che arrivi qualcuno. Questo disgustoso individuo fa amicizia col piccolo Jim. Ma Jim ne ha paura e potendo lo eviterebbe, ma quello lo coinvolge: gli affida in amicizia un compito cui il timido ragazzino non riesce ad opporsi. Un compito che vincola Jim all’intimità col bucaniere. Ogni mese il cosiddetto “capitano” gli regala una moneta d’argento, in cambio deve riferirgli se vede, nei dintorni della locanda e nel vicino villaggio, un marinaio con una sola gamba. Jim accetta. Deve solo guardare. Ma ben presto il piccolo si accorge che quell’attesa lo coinvolge intimamente, diventa un’ossessione; e il marinaio con una sola gamba tinge di terrore le sue notti.

Poi il “capitano” muore, fulminato da un colpo apoplettico causato dalle abbondanti e continue libagioni di rum. A Jim rimane la cassa, e arrivano quei lestofanti criminali che il capitano aspettava; un manipolo, i resti dell’equipaggio del famigerato capitano Flint, alla ricerca di qualcosa che è nascosta all’interno della cassa. Si tratta della mappa che Jim, non sapendo neppure cosa sia, estrae dalla cassa, mentre la madre vi cerca il denaro che il vecchio pirata morto le deve. Così Jim entra in possesso della mappa di Flint che tutti cercano, la carta che Flint ha consegnato a Billy Bones, suo comandante in seconda. La mappa indica il luogo preciso dove è stato sepolto un tesoro. Jim ignora che Flint è il pirata più feroce che abbia infestato i mari, e che nel corso delle sue scorrerie ha accumulato un tesoro di cui si favoleggia da tempo. Ma lo sanno il dottor Livesey e il conte Trelawney che in pochi giorni armano una nave, l’Hispaniola, di cui Jim sarà il mozzo, Livesey il medico e Trelawney l’ammiraglio. Ma il conte commette un errore: arruola come cuoco di bordo Long John Silver, l’uomo con una gamba sola. E proprio a quest’ultimo affida il compito di formare l’equipaggio. Seguiranno varie avventure. Avventure che anche noi lettori, in compagnia di Jim, abbiamo vissuto e vivremo ancora nella rilettura.

Stevenson, del suo romanzo, scrisse che “doveva essere una storia per maschi. Non c’era bisogno di psicologia o molto stile. Avevo un ragazzino sottomano che faceva da cavia.” Il ragazzino era Lloyd Osbourne, il figlio di sua moglie Fanny. Si erano sposati tre anni prima, nel 1880. Stevenson aveva allora trent’anni e Fanny, l’americana divorziata ed emancipata, undici di più. Erano tornati a Braemar, in Scozia, dopo la luna di miele e alcuni mesi trascorsi in California, a Silverado. La salute di Robert era sempre pessima, la malattia ai polmoni, la tisi, non gli dava tregua e non c’era più l’adorata governante Cummy a tenerlo a letto raccontandogli le storie della Bibbia. In Scozia, Stevenson si era riconciliato con i genitori che erano stati colpiti e conquistati dalla personalità di Fanny. E fu proprio il padre Thomas, il costruttore di fari marittimi che non ebbe nipoti, a improvvisarsi nonno per questo ragazzo piovuto dall’America, scatenando la prima scintilla del romanzo. I genitori dello scrittore facevano spesso visita al figlio che abitava in un grande e confortevole appartamento dove Robert trascorreva le giornate scrivendo e assistendo il piccolo Lloyd che disegnava e dipingeva. L’atmosfera calda e confortevole del cottage, le frequenti piogge, la quiete del luogo favorivano la conversazione. E così avvenne che un giorno Stevenson, trafficando con Lloyd con carta e matita, cominciò a tracciare la mappa di un’isola immaginaria: era diventato un abile cartografo, grazie alla breve esperienza giovanile col padre. Una esperienza utilissima a rendere credibile la carta dell’isola, subito popolata di nomi avventurosi: la collina del cannocchiale, l’isola dello scheletro. Il tutto sotto lo sguardo meravigliato del piccolo Lloyd, il cui entusiasmo incoraggiò Stevenson a immaginare la storia, partendo dalla mappa. Gli furono di grande aiuto le avventure di pirati ambientate su vascelli maledetti, o in porti avvolti dalle nebbie e in taverne fumose popolate da manigoldi: tutte storie che avevano popolato la sua infanzia, narrate dal padre. Fu utile anche il gusto “gotico” di Fanny, appassionata di letteratura del mistero. E discutendone davanti al camino scoppiettante, nacque la trama de L’isola del tesoro, la cui prima versione portava il titolo di The Sea Cook. Suo padre Thomas diede un contributo importante, grazie alla sua conoscenza dei porti, delle navi e delle abitudini dei marinai. E Robert fece tesoro di quei suggerimenti, suggerendogli importanti intuizioni.

Borges, come già detto, considerava questo romanzo “una delle forme di felicità”, Calvino lo definiva “un grande romanzo, in assoluto”. Ha fatto (e fa) sognare generazioni di ragazzi e adulti di tutto il mondo. Noi, che siamo nati e viviamo in un luogo di mare, lo definiamo il libro più caro, più amato, che ci è stato compagno nei felici anni dell’infanzia e della prima adolescenza. Le sue pagine profumavano (e profumano) di avventura, di mare aperto, di aria marina, di maree, di venti furiosi, di brezze leggere, di risacca. Tutti elementi che ancor oggi intridono le nostre stanze affacciate sui flutti.

 

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