“LA COMPAGNA” di
Domenico Della Monica
Questa storia è vera !
Un metro e sessanta, 33 anni, occhi verdi, capelli nerissimi a coda di cavallo, appena un filo di trucco. Consuelo, così ragazzina, così decorosamente piccolo-borghese nel tailleur grigio stirato perfetto, niente tacchi, calze bianche a fiorellini modello educanda. E’ carina, educata, perbene. E’ simpatica, allegra. E la storia complicata della sua vita – una vita di quelle che si usa definire sbagliate – riesce a raccontarla come un’epopea tragicomica, una farsa infinita, una commedia all’italiana che lascia l’amaro in bocca, ma strappa anche il sorriso. Consuelo lavora sul marciapiede da tre anni, prevalentemente sulla litoranea, a tariffa standard: trenta in macchina e cinquanta in camera. Senza protettore – perché io sono una libera professionista – dichiara orgogliosa. E anche se faccio il più antico mestiere del mondo, cerco di farlo con dignità, educazione e stile, senza perdere il rispetto per me stessa. Non voglio diventare una macchina cretina per fare soldi. Lavoro solo il minimo indispensabile per tirare avanti. E mi interesso ancora di politica, leggo, mi informo. E guai a chi tocca i miei diritti di cittadina.
Politica, diritti, lotte, organizzazione. Consuelo sgrana il sindacalese come una beghina il rosario. Per forza, sono passati solo cinque anni da quando, con la tessera della C.G.I.L. in tasca, faceva l’attivista col sindacato. Forse un po’ ingenua, ma certo entusiasta. E ricorda con nostalgia i tempi delle vertenze, le manifestazioni, i volantinaggi, gli slogan. A casa conserva ancora le vecchie tessere, ormai sbiadite, del sindacato; e quelle, cinque in tutto, dal 1974 al 1978, del PCI. Era iscritta ad una sezione di periferia. E oggi, quando passa da quelle parti, i compagni scuotono la testa. Lei lo sa. Ci soffre. E non s’è mai fatta viva a spiegargli il perché. Ma esiste un perché per una scelta come quella di Consuelo?
Era il maggio dell’anno scorso – racconta – ero senza lavoro, senza marito, con cinquemila lire in tasca.
Una sera alla tv danno quel film con Monica Vitti, “Le coppie”, dove per pagare l’ultima rata del frigo lei va a battere. E’ stata come una folgorazione: ma guarda, mi son detta, non ci avevo mai pensato.
E pochi giorni dopo ero sulla strada. Non lontano da casa, tremante, spaventatissima. Chi può spiegare mai – dice – la prima volta in strada? Finì che col suo primo cliente, un distinto avvocato, Consuelo si mise a piangere. L’avvocato le diede duecentomila lire e le disse: “Sei negata, figlia mia, ripensaci.” Consuelo rimase tutta la notte sveglia a guardare quei soldi, lì, sul tavolo della cucina. Incredibile. Duecentomila lire in una sera. Era quello che guadagnava in una settimana, con otto ore di lavoro. E col padrone c’era sempre da discutere, e non capiva mai niente. E questo, uno sconosciuto, aveva capito tutto e le aveva dato una mano. Ha continuato. Cosa aveva da perdere, in fondo? La società l’aveva delusa, l’avevano delusa la politica, il sindacato, il matrimonio e il lavoro. Non le restava che fare la prostituta. E l’ha fatto. Non aveva trent’anni, allora. E cinque di militanza comunista alle spalle, e sette almeno di attività sindacale. E ancora, giovanissima il Sessantotto fatto alle Magistrali di piazza Malta. Aveva quindici anni, nel sessantotto: lunghi capelli a treccine, sandali da schiava, e un faccino ingenuo per la politica, un’adorazione per il “libretto rosso” di Mao- A vent’anni entra nella sua vita il femminismo, a venticinque il marito operaio che le trasmette l’amore per il popolo, la gente semplice, che si alza all’alba e vive e soffre e strappa la vita con i denti. Da qui l’impegno nel sindacato, l’ingresso nel PCI. Un percorso uguale a tanti, tantissimi altri percorsi di sinistra finiti col riflusso, la delusione della politica, il ritorno al privato. Nel 1980, stanca di fare la commessa Consuelo si licenzia. Perde il lavoro, il sindacato. Se ne va. Nessuno la cerca, i vecchi compagni spariscono. Ci rimane male, Consuelo. Non ha più amici, si è appena separata dal marito, entra in crisi, straccia la tessera del partito. Nessuno la cerca più, rimane sola. Chi può immaginare – dice – l’abisso di delusa tristezza in cui si ritrova un’oscura militante che nel grande sogno della sinistra aveva investito tutto? Che nel sindacato, nel partito, nell’impegno aveva cercato il senso di una vita sbagliata fin dall’inizio? Consuelo scrolla la testa. Compiangersi non è il suo forte. Ride a raccontare il suo essere “figlia della colpa”, nata da una relazione tra sua madre e un commerciante dell’Agro, scomparso non appena seppe del pancione.
Ride ancora quando parla della madre incinta, un tipo prosperoso alla Sophia Loren, che si rifugia nella chiesa del Carmine a chiedere la grazia che l’aiuti a risolvere la vergogna; e che per strada si fa abbordare da un barbiere, che la segue fino in chiesa, e sedotto non si sa se dalle lacrime o dalle curve, si dichiara tra gli inginocchiatoi di legno e se la sposa col corredo dei poveri. La vergogna è riparata. Dopo qualche mese la coppia felice va in Cilento a conoscere i suoceri. E’ lì che nasce Consuelo. I genitori tornano a Salerno, nascono altri figli. Vita grama. A sedici anni non regge più. E’ il 1969, furoreggiano i Beatles e i Rolling Stones, a scuola si fanno manifestazioni e si favoleggia di marijuana e altre droghe. Consuelo sogna di fare l’hippy. Scappa di casa, coi suoi sandali da schiava e il libretto rosso di Mao. Finisce a fare la segretaria di un commercialista più vecchio di lei di venticinque anni, con una famiglia a Caserta e una a Latina. Dopo un anno va incontro ad una gravidanza, un maschio, l’anno dopo partorisce una femmina. A vent’anni il commercialista la lascia: sola con due figli, senza casa e senza lavoro, e lui che sparisce nel nulla. Che può fare Consuelo? Il tribunale dei minorenni dà in adozione i due bambini. E lei, ragazza madre col cuore spezzato sta tanto male che finisce a Villa Chiarugi di Nocera. Quando esce è a pezzi. La sorreggono le femministe. Lavora: assistente alla poltrona di uno studio dentistico, poi pasticciera, poi commessa. Si interessa di politica, si innamora di un operaio della Pennitalia, lo sposa. Non è questa l’onestà che tutti vogliono? Non è questa la rispettabilità? La quiete, una famiglia modesta ma decorosa. E l’impegno a sinistra. E la speranza in un mondo migliore. Togliete tutto questo. Che rimane a Consuelo? Per un po’ si arrabatta a pulire le scale dei palazzi, poi apre un banchetto di fiori al cimitero. Nel 1983 i risparmi sono finiti, lavoro non ce n’è, né famiglia, né amici. Tenta due volte il suicidio. Non mi rimaneva che una cosa da fare – ride Consuelo – e l’ho fatta: il pellegrinaggio a Roma per l’Anno Santo…e giù una risata a ricordare l’unico risultato del pellegrinaggio: una gravidanza. Abortire? Neanche per sogno. Un altro bambino, almeno, avrebbe dato un senso alla vita, – spiega – avrebbe costituito un legame, mi avrebbe dato un motivo per vivere. E’ per il bambino in arrivo che Consuelo comincia a “battere”? Anche. Un bambino costa. E costa ancora di più l’avvocato che tenta di farle riavere il bambino che le assistenti sociali le hanno portato via.
E’ per lui che Consuelo esce di casa ogni sera.