Commento del libro “Vissi d’arte e d’amore”
a cura di GIANCARLO PALUMBO
Autrice: Chiara Ricci, Anna Magnani – vissi d’arte, vissi d’amore – Edizioni Sabinæ, RI – 2009
Giancarlo Palumbo, classe 1952, è un docente ed esperto di cinema, vietrese di origine, che da anni vive a Sarno (Sa). In occasione della recente XII° edizione del Premio letterario nazionale “Borgo Albori 2016” , proprio per le sue competenze artistiche è stato inserito nel Comitato d’onore del Premio e, su nostra sollecitazione, così ha scritto del libro di CHIARA RICCI dedicato alla grande attrice ANNA AMGNANI, a 61 anni dal premio Oscar ricevuto dalla stessa per la sua interpretazione nel film “La rosa tatuata” (The Rose Tattoo) un pellicola del 1955 diretta da Daniel Mann. ((nella foto in alto CHIARA RICCI con il Professor Giancarlo PALUMBO).
(Albori – 3 settembre 2016)
” Sembra quasi che un po’ tutti coloro che si sono accostati al dualismo persona/personaggio di Anna Magnani , mai così come in lei originale e controverso, lo abbiano fatto per caso : non conoscono bene il motivo, la “vocazione” o la musa che li ha ispirati conducendoli a raccontare la sua vita, la sua arte, i suoi amori.
Anche noi siamo piuttosto scevri e forse in qualche modo lievemente in imbarazzo quando ci chiedono da dove nascono le nostre ”illuminazioni” : sappiamo solo in seguito, a ragion veduta ma anche e meglio come sostiene Paolo Fabbri a passion veduta, che esse sono diventate delle vere vocazioni, quelle per intenderci che solleticano il nostro amor proprio mai domo e ci mandano nel subconscio l’sms con su scritto: “questa cosa ti ha cambiato la vita”. Come il teatro e il cinema poi hanno cambiato la vita di Anna Magnani o l’hanno realizzata (nel bene e nel male, come vedremo), così anche per Chiara Ricci si è trattato dello stesso copione. Potremmo dire, utilizzando uno che se ne intendeva di queste faccende, che la vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita. Dicevamo del caso …
Sappiamo dalla storia del pensiero classico che il caso è annoverabile nell’ambito delle «cose indeterminate e oscure per l’uomo», e in quanto causa indeterminata, «va contro ogni ragionamento», ma, suggerisce il filosofo, “è in vista di qualcosa”. Spesso il caso vede e dispone in noi l’esecutore testamentario di fini a noi ignoti o che non sembrano chiari, almeno non immediatamente. Cos’è … una lacuna del sapere umano, la presenza di una causa che non vogliamo o riusciamo a individuare. Nel numero del 9 aprile di quest’anno dell’inserto La Lettura del Corriere della sera Giulio Giorello, filosofo della scienza, parlava persino della dittatura del caso. Pensate a me questa sera. Perchè mai sto qui con voi stasera a parlare di un libro che racconta di un’attrice che, guarda caso, era quella che piaceva da matti a mia madre e che aveva letto il libro della Carrano di cui il bel libro di Chiara Ricci è fortemente debitore? Ma ancora: per caso, Maria Grazia Salpietro, instancabile promotrice culturale, capita lo scorso anno nella mia scuola e per caso mi sente parlare di cinema in una rassegna di film da me organizzata e mi chiede di presentare questo libro. Ma c’è di più. Ritorno qui nei dintorni di Vietri dove tra gli anni ’70 e ’80 insieme ad alcuni amici avevamo fondato un circolo del cinema di cui molti ricordano le vicende e stasera, a distanza di un abisso temporale e in maniera traslata, sto qui con voi e Chiara a parlare di cinema.
Anatole France dichiarò che Dio, quando non vuole firmare usa come pseudonimo la parola Caso. La figura di Anna Magnani per Chiara Ricci oscilla a mio parere tra caso e determinismo, tra vocazione e destino. Almeno da ciò che ho capito io, affrontare la vita e soprattutto le opere di Anna Magnani, per l’intensità e la virulenza del suo carattere e per quanto la messa in scena a volte con fatica altre con evidenza esemplare e mitopoietica lo traduce rispecchiandolo nella fiction, produce una forma di eccitata sensibilità in chi ne scrive, a tal punto da suscitare nel biografo un entusiasmo seduttivo tale che l’identificazione, l’empatia e la suggestione fa che ci si senta un poco come lei, modellando la propria lingua e il racconto in un’accoglienza spontanea della verità chiara e forte di questa straordinaria donna. Basti pensare all’esergo che Chiara Ricci pone nell’incipit del libro: Quando muoio, quando la gente pensa a me deve sapere che la Magnani non gli ha mai mentito. Deve essere sicura che la Magnani non l’hai mai tradita e che la Magnani non ha mai tradito se stessa. Chiara Ricci accoglie allora in sé la vocazione di collocare la sua personale storia nell’alveo della storia complessa e multiforme di un’altra donna, dall’altra la sociologia non corriva della memoria le impone di attuare una forma di nemesi o di restituzione, ossia recuperare il vero mito della Magnani decostruendolo da tutte le impolverate incrostazioni sul suo essere donna e attrice. Insomma, un gesto che ristabilisce il percorso de la chanson de geste della Magnani scongiurando la damnatio memoriae e l’oblio in cui in parte era precipitata.
Un libro denso, quantunque agile e di facile consultazione destinato allo scopo di restituire al pubblico che l’ha amata, al pubblico che la ricorda o a coloro che se la sono persa come a quelli che per la prima volta la conoscono e la scoprono, il senso profondo di una riparazione, il ritratto della persona al di là della maschera che volenti o nolenti, al cinema come nella vita reale spesso indossiamo, divisi tra l’anelito al personaggio che è in noi e il monito filosofico del “diventa ciò che sei”. Malizia dello storytelling che lega lettori e spettatori a doppio filo al tema della sua leggenda o finalismo del caso?
Ci si chiede e ci si è chiesto: come mai se la sono dimenticata o in molti non sanno chi è stata? Il libro ci restituisce, appunto, la grana irriducibile della sua Voce umana a qualsiasi schema o regola prestabilita, in nome del rifiuto del clichè e della concessione a forme di divismo canonicamente consacrate. Ma la Magnani è diva, altro che antidiva. E’ diva perché come dice di lei Zeffirelli, “professionalizza la verità”, la sua verità. Parafrasando un critico cinematografico, potremmo dire non più Diva della scena madre ma piuttosto Madre della scena, privata o pubblica che sia. Oppure, per accostarla – non sono solo io a farlo – a una come Bette Davis, bigger than life anch’essa forte ed energica profeta di se stessa. E Anna Magnani desidera essere madre della scena, o della propria messa in scena, riottosa e indomabile e umanamente popolare, umanamente fragile, donna non comune in cui coincidono, come sostiene un grande scrittore, felicità di osservazione e forza di rappresentazione .
“Ristabilire la verità” dunque: è la stessa Magnani che parla polemizzando col suo inconfondibile stile sulle “cotte e crude” che hanno raccontato su di lei.
Qualcuno ha sostenuto che la poesia è il genere dell’adolescenza, il romanzo quello della giovinezza e la biografia è invece il genere della maturità. Un genere che esercita un fascino particolare per coloro che iniziano a sentire che la vita si fa seria, e che abbiamo bisogno di ordine e di consolazione in mezzo al rumore e alla furia di una vita che galoppa e ci sfugge.
Ma qual è la verità di Anna Magnani? Bellissima, La Carrozza d’oro, Assunta Spina, Mamma Roma, La voce umana, Serafina che vince l’Oscar, Pina che rincorre il suo Francesco in Roma città aperta (Lizzani in Celluloide, film che ricostruisce il capolavoro di Rossellini, ricorda che il grande Roberto aveva avuto l’ispirazione di quella sequenza da un episodio accaduto sul set con protagonista proprio la Magnani) o nei mille e passa episodi della sua vita privata? Pirandello risponderebbe Così è se vi pare, alludendo all’ irriducibilità della verità, per cui la maschera è sempre egemonica e il rapporto tra verità finzione mai risolto. Ma la biografia può restituirci un punto di osservazione privilegiato, può scandire quel “fenomeno unico” che è la Magnani definita da Corrado Alvaro e provare a far coincidere – e in questo Chiara ci riesce benissimo – la verità e la poesia di una vita.
Tuttavia Walter Benjamin, parlando delle Affinità elettive, sosteneva che nella biografia non c’è né critica né commento, vale a dire che non si può fondere il piano della vita con le opere, ovvero far emergere il «tenore di verità» di queste ultime dal piano reale della vicenda biografica. La vita è una cosa, le opere altro. E’ il problema dell’identificazione. E’ un gioco straordinario, fatto di sottigliezze e di trappole. Ma è possibile, dico, sempre e in ogni caso, tenerli distinti entrambi, separarli, fare in modo che non coincidano? In nostro soccorso Edgar Morin prova a chiedersi che cos’è una personalità? « E’ mito e realtà a un tempo. Ognuno di noi ha la sua personalità, ma vive il mito di essa (… ) ognuno si costruisce una personalità, che in un certo senso è il contrario di quella vera, ma anche il mezzo per giungere alla nucleo di quella vera. La personalità – conclude Morin – nasce sia dall’imitazione che dalla creazione; è una maschera che però ci consente di far sentire la nostra voce, proprio come la maschera del teatro antico». E allora in una piece come La voce umana di Cocteau, o come in Bellissima di Visconti nel momento paradossale e metaforico insieme in cui si rivolge alla figlia pettinandola “Tu si che puoi fa’ l’attrice, anche io se avessi potuto” o nello stesso episodio tragico in cui rincorre il suo Francesco o lo sgomento ormai muto di Mamma Roma, davanti alla morte del figlio e a una città che non le appartiene più, come distinguere il “tenore di verità” della vicenda biografica, della donna dal dispiegarsi dell’opera?
Del resto – ammoniscono gli studiosi di cinema – l’attore sulla scena è un carattere e atteggiamento, vale a dire è sempre qualcuno e fa qualcosa. Io credo che entrambi appartengano a un tutto inscindibile, dove lo svelamento dei confini è una sola cosa col tradimento della verità. Imitazione e creazione sono due facce della stessa medaglia; noi abbiamo conosciuto del resto la Magnani grazie ai suoi film, al suo teatro ed in ciò la persona e la sua maschera hanno permesso che in un modo o nell’altro la sua passione e virulenza ci contagiassero e che la sua arte dispiegasse prima e compisse poi la sua redenzione, che come dice Nietzsche è l’operazione mediante la quale, a un certo punto della maturità, trasformiamo ogni singolo e incerto “è stato” in un “avrei voluto che fosse così”. Vissi d’arte e d’amore, il bel titolo che Chiara Ricci ha dato al suo libro, è la congiunzione di destino e carattere, l’amore per l’arte, il teatro e il cinema, e la devozione, si la devozione per se stessi realizzando della propria vita un capolavoro di ombre e luci, punteggiata di fuochi accesi e di cadute, di trionfi e meschine proposte rifiutate. Anna Magnani un po’ come Tosca, tenace e fervida protagonista del salvataggio di se stessa dal tradire e dall’essere tradita, donna di grande temperamento, una donna pronta a tutto, drammaticamente risoluta, “strafottente, arrogante e imprevedibile” diceva di lei Federico Fellini al quale Anna incuteva timore, e del quale la stessa faceva fumo e cenere delle pur affascinanti e autocompiaciute escursioni intellettualistiche dicendogli “E’ meglio che vai a dormi, a Federi , va…” D’altra parte anche lei gigioneggia, diciamolo pure, sul delicato crinale che lega e separa insieme realtà e finzione: in Bellissima dice Che significa recitare …e se io mo mi credessi d’essere, facessi finta di essere un’altra. Tutta qui la cifra di chi ha deciso di diventare attrice recitando la sua vita, imprimendo ai suoi personaggi un istinto e un forza cosmica che trovano difficilmente uguali nella storia del cinema.
Allora che cosa passa dallo schermo, dalla visione del corpo di Anna Magnani allo spettatore, come ci lavorano dentro la sua voce, le traiettorie dello sguardo, lo zodiaco delle sue emozioni e quel volto, che ogni scienza del significato e dell’espressione faticherebbe a decifrare?
Potremmo dire citando il grande Eduardo che lei, come nella Lupa , non aveva bisogno della voce che parlava con le mani e con gli occhi. Ma non solo.
Il cinema è storia di modelli e di clichè ritualizzati: si ricordino per chi ne ha memoria filmica, i riccioloni di Mary Pickord, il biondo platino della Jean Harlow, la pettinatura liscia di Greta Garbo, la banda sull’occhio di Veronica Lake, le pettinature di Marlon Brando e di James Dean, le labbra di Joan Crawford, le diverse forme di abbigliamento dai giubbotti agli occhiali da sole, la sigaretta di Bogart, i baci mille baci come quelli raccolti e condensati in una sorta archetipo immortale nella splendida sequenza al termine di Nuovo Cinema Paradiso? Il cinema ci ha dato, nei visi bianchi dei divi, il solo mito contemporaneo di un’ intensa seduzione, qualcosa del genere lo sosteneva un certo John Ford che di inquadrature memorabili se ne intendeva. Tutto ciò provocava nelle folle il massimo turbamento, era come un filtro magico e il viso, a detta di qualcuno, “costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare”
Così anche per il volto e il sorriso della Magnani, solo che qui non c’è alcun trucco o travestimento, il suo viso non è intonacato è di carne viva e sembra che sia per noi accessibile ma soprattutto riconoscibile.
Ci sono altri luoghi, mi chiedo e vi chiedo, in cui le forze dell’affetto sono convocate e disposte? Dov’é possibile trovare il modello incarnato di una distanza che permetta un’altra lettura delle passioni del viso, che un pensatore come Robert Nozick ha chiamato “icone del valore”? Difficile trovare alternative, il volto, il viso, e in particolare quello della Magnani che giustamente campeggia vistosamente sulla copertina del libro di Chiara Ricci, è “la cifra d’accesso all’archivio segreto dell’anima”, della sua anima.
La stessa Magnani è gelosa del suo volto: “Lasciamele tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una, che ci ho messo una vita a farmele!” Io credo che si possano usare liberamente le parole che Roland Barthes, finissimo intenditore delle cose umane, scriveva a proposito del viso di Greta Garbo anche per quello di Anna Magnani. Il viso, sosteneva Barthes in Miti d’oggi, “rappresenta quel momento fragile in cui il cinema sta per estrarre una bellezza esistenziale da una bellezza essenziale, la chiarezza delle essenze carnali sta per far posto a una lirica della donna”. Credo sia questo il motivo conduttore del libro di stasera: una lirica della donna e in quel volto in prima pagina così prorompente e assertivo, disinvolto e quasi quasi – direbbe di lei Paolo Conte – quel “volto triste da italiana allegra”.
Le traiettorie entro si dispiega l’ordito di questa foto sembrano così “alludere alla coesistenza di due stati d’animo diversi, se non persino di due persone diverse entro lo stesso volto. Due sentimenti diversi, a volte opposti e confliggenti tra loro si contendono la personalità espressa nel volto. Al di là delle intenzioni di chi si espone alla foto, i due occhi non dicono lo stesso, ma la compresenza per esempio di determinazione e paura, o tristezza e odio, o allegria e insieme malinconia, o molte altre ancora combinazioni possibili.” Nella Magnani questa complessità primordiale e quest’andirivieni tra la scena e la sua biologia, tra il re-citare e il vivere sono mediate da un “istinto” (L. Visconti) – ma convivono – e questo il pubblico lo ha sentito, grazie a «una sorta di ossessione, quasi una patria da ricercare sempre, di un amore che si alimenta amando, mai méta, mai sicuro di sé, mai quieto possesso» (M. Cacciari). Credo che così Anna Magnani abbia vissuto d’arte e d’amore, tra il desiderio e una passione mai esaurita, indomabile, da riottosa e donna non comune.”
Il libro di cui stiamo parlando dunque, che ha ricevuto il PREMIO SPECIALE ” BORGO ALBORI 2016″ nella sezione CINEMA , vuol essere un omaggio, una dimostrazione di affetto dell’autrice ad una delle più grandi attrici del Novecento. Un’analisi in bilico tra arte e vita, cinema e teatro, realtà e finzione. Un’analisi di film e di personaggi nati come creature teatrali e divenuti come per magia gemme del nostro cinema e parte dei nostri ricordi.
Uno sguardo posato sulla vita, sulla carriera e sulla sincerità di una donna che ha fatto di sé inconsapevolmente l’essenza della sua arte.
“Ma io non so nemmeno se lo sono, un’attrice…cosa vuol dire essere un’attrice? Io una sera sono in un modo, una sera sono in un altro. Un’attrice dovrebbe essere tutte le sere uguale. Ma io non so giudicarmi. Confesso francamente che se mi chiedessero di dare un’opinione su me stessa, non saprei darla…la lascerei dare ad altri”.
Chiara Ricci è nata a Roma nel 1984. Si è laureata in DAMS-Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo e ha poi conseguito la laurea magistrale con lode in Cinema, Televisione e Produzione multimediale. Scrittrice e critica teatrale e cinematografica, ha pubblicato il volume Anna Magnani – Vissi d’arte, vissi d’amore, con il quale ha vinto il Premio Internazionale Giuseppe Sciacca; il saggio dal titolo Napoli terra d’amore: The Eye on the Screen of Elvira Notari, in Italian Women Filmmakers and the Gendered Screen, edito negli Stati Uniti d’America (2013); le monografie Signore & signori… Alberto Lionello (AG Book Publishing, 2014), Valeria Moriconi. Femmina e donna del Teatro italiano (AG Book Publishing, 2015) e “Monica Vitti. Recitare è un gioco ” (AG Book Publishing, 2016).