“L’approdo letterario” la rubrica on line dello scrittore Domenico Della Monica

 

Domenico Della Monica, medico pneumologo di Scuola Pavese, è nato a Vietri sul Mare il 20 novembre 1950. Pubblicista, narratore, saggista, ha collaborato alle pagine culturali di quotidiani e periodici. È autore di racconti e saggi di carattere medico scientifico e storico letterario. Ha ricevuto premi e riconoscimenti. L’ultimo, in ordine di tempo, in occasione dell’Internazionale Spoleto Art Festival Letteratura nel 2021, per il suo libro dal titolo:  ‘Il commissario Maigret, 90 anni di indagini’.

 

 

GIUSEPPE TOMASI di LAMPEDUSA, l’ultimo dei Gattopardi

 

….. di Domenico Della Monica

 

Nel luglio 1954, a San Pellegrino Terme, dieci famosi scrittori e poeti italiani aspettavano dieci sconosciuti colleghi, che si erano presi la responsabilità di patrocinare, scegliendoli tra le loro letture.

I nomi dei primi nove si sono smarriti. La curiosità maggiore fu per il decimo, che era stato scelto da Eugenio Montale, per una combinazione del caso. Il libro del suo protetto gli era arrivato al Corriere della Sera da Capo d’Orlando (Messina), con una multa di 180 lire per affrancatura irregolare. Montale si sbarazzava rapidamente dei libri che gli piovevano sul tavolo, non richiesti. Ma quello lo incuriosì. “Volevo sapere se valesse le 180 lire”, confessò più tardi il poeta. Le valeva. Anzi, pensando a quanto ne sarebbe seguito, furono le 180 lire spese meglio nella recente storia della letteratura italiana. Dentro la busta c’erano i “Canti barocchi”, nove liriche di un certo Lucio Piccolo. Montale le lesse, quel giovane gli dava fiducia. E lo invitò al convegno. Il giovane si rivelò un maturo barone siciliano, di oltre 50 anni. Ma la cosa più strabiliante era la compagnia che si era portato dietro: un cameriere personale e un cugino più anziano, se possibile più aristocratico di lui, corpulento, taciturno, che partecipò alle due giornate di colloqui limitandosi ad ascoltare, sempre defilato. Quel personaggio, che prima di allora non aveva mai avuto contatti con il mondo letterario italiano, e non ne avrebbe più avuti dopo, si chiamava Giuseppe V Maria Fabrizio Vittorio Tomasi, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone di Montechiaro. Nessuno ricorda di avergli sentito dire una parola, di là dalla presentazione. Soltanto molto più tardi si seppe che, stimolato da quell’incontro, al suo ritorno a Palermo si mise a scrivere. E, in una ventina di mesi, creò “IL GATTOPARDO”. Il principe di Lampedusa veniva da una delle più blasonate famiglie italiane, anzi, da una delle più illustri casate europee. L’animale dell’emblema araldico, che il suo libro ha reso immortale, rimanda a origini antichissime, che si perdono addirittura nel mito. Storicamente, il cognome Tomasi risale all’impero di Bisanzio, dove un generale Thomaso detto il Leopardo verso la fine del VI secolo aveva sposato la figlia di Tiberio II. Genero di imperatore, sarebbe diventato poi cognato, suocero, nonno e bisnonno di altri quattro imperatori successivi. I suoi discendenti, dietro tanto esempio, si sarebbero coperti di gloria diramandosi per il Mediterraneo e soprattutto in Italia, fra Ancona, Siena, il Napoletano e, dal XVI secolo, la Sicilia. Sempre coperti da quel felino rampante, che li accomuna tutti: duchi, cardinali, generali, santi, e perchè no? poeti. Ancora all’inizio dell’Ottocento il conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, da Recanati, corrispondeva con il principe Giulio IV Tomasi a Palermo, per sapere se quel ramo siculo discendeva dallo stesso albero marchigiano. Discendeva. L’animale dell’insegna in realtà era un leopardo anche in Sicilia, chiamato “Gattopardu” solo dialettalmente, dai famigli, quasi per renderlo più domestico. Giuseppe V Tomasi, nascendo a Palermo il 23 dicembre 1896, ultimo erede della dinastia, aveva in sé anche una vena di quel buon sangue letterario – debitamente scettico, consapevolmente amaro – che aveva prodotto, più a Nord, “Le Ricordanze” e “La Ginestra”.

Il nome c’era sempre, i palazzi in buona parte, le memorie tutte. E il patrimonio si andava dissolvendo. Un decreto ministeriale del 1903 riconosceva a Giuseppe IV di Lampedusa, nonno dello scrittore, i tre titoli nobiliari, il blasone con il “leopardo illeonito”, il mantello e la corona di principe, oltre il motto di famiglia “Spes mea in Deo est”. Un atto ufficiale che sanciva mille anni di storia, destinata a polverizzarsi in pochi decenni di cronaca. Di quella grandezza il personaggio nato alla fine del 1896 avrebbe raccolto le ultime briciole. In compenso l’avrebbe sublimata e cristallizzata nelle sue pagine, tramandandola per sempre, a futura memoria.

La vita e l’opera dell’ultimo Lampedusa sono tutte sotto il segno del paradosso, anzi, della contraddizione: tanto da generare, dopo il successo del suo libro, una serie di leggende. Una sua prima biografia, fondata sulle voci raccolte in famiglia, lo vorrebbe eroe della Grande Guerra, caduto prigioniero durante un assalto, protagonista di un romanzesco tentativo di fuga dal campo di Szombathely in Ungheria. Sarebbe arrivato a piedi fino in Italia, non riconosciuto nemmeno dal portiere quando si presentò a Palermo, nel proprio palazzo. Uno storico più pignolo degli altri ha voluto controllare le carte : non ha trovato alcuna conferma. Così come non risulta vera la laurea in giurisprudenza a Torino, di cui tante volte Giuseppe Tomasi aveva parlato con gli amici. A Torino il principe siciliano visse di sicuro per un certo periodo, come risulta da uno dei suoi racconti, “La sirena”, che vi è ambientato; ma probabilmente fece altro che studiare. Insofferente alle regole, alieno dallo studio accademico, di temperamento un po’ pigro ma sempre curioso di conoscenza, Tomasi di Lampedusa, per tutta la vita, sembra abbia fatto due sole cose: leggere e viaggiare. Il patrimonio ereditato, benché molto ridotto rispetto alla potenza precedente della famiglia, gli consentiva di comprare tanti libri e di viaggiare a suo piacimento per l’Europa, senza legarsi ad alcun impegno di lavoro. I beni si assottigliavano, la cultura si arricchiva. Siciliano fin nel midollo, europeo nello spirito, parlava inglese, francese, tedesco, conosceva lo spagnolo, sarebbe arrivato a leggere Tolstoi in russo. A Londra, presso lo zio Pietro Tomasi della Torretta, ministro degli Esteri nel governo Facta, conobbe una baronessa lettone, Alessandra Wolff Stomersee, e la sposò. Matrimonio a Riga, nel 1932, con tanta nobiltà che ricordava i bei tempi di San Pietroburgo, dove il padre della sposa era stato il ciambellano dell’ultimo zar. Così quel sangue venuto da Bisanzio incrociò il sangue venuto dalla Neva, il cerchio della grande aristocrazia europea si stava saldando. E senza frutti: da quel matrimonio non nacquero figli. Giuseppe V Tomasi fu l’ultimo dei Gattopardi in ogni senso. Solo per assicurare un futuro al nome, non alla stirpe, il principe avrebbe adottato un giorno uno dei suoi allievi prediletti, Gioacchino Lanza di Mazzarino, il futuro musicologo, la cui famiglia, nelle generazioni precedenti, aveva più volte incrociato quella dei Lampedusa. Ma il segno della fine venne, rumorosamente, il 5 aprile 1943, quando il palazzo Lampedusa a Palermo, dove il principe era nato e vissuto, fu raso al suolo da un bombardamento. Giuseppe Tomasi era ufficiale in Libia; non si riprese più da quel colpo. Molti fra i suoi oggetti, recuperati dalle macerie, furono inviati a Capo d’Orlando dove un’altra bomba li condannò per sempre. Si salvarono alcuni mobili antichi e gli scaffali della biblioteca, con diecimila volumi. Non si salvò, mai più, lo spirito che circolava in quelle antiche sale: e che, tanti anni dopo, avrebbe ispirato le pagine più malinconiche, ma anche più penetranti del romanzo. Il principe, dopo la guerra, si ridusse a vivere per qualche anno con la moglie in una camera ammobiliata, che umiliava il suo orgoglio. Solo nel 1947, dipanata una lunga vertenza giudiziaria di successione, potè ricomprarsi un palazzo avìto, meno importante del primo: quello di via Bufera, affacciato sul mare, lo stesso dove era vissuto il bisnonno, il principe astronomo futuro protagonista del romanzo. E lì si consumò la vita del pronipote, fino alla vigilia della morte. Viaggiava meno, ora, Giuseppe Tomasi; leggeva di più, nella casa dove la moglie era intenta ai suoi studi psicoanalitici (sarebbe diventata presidente della Società italiana di psicoanalisi). Lui usciva di casa ogni mattina, andava al caffè Ma zara, al circolo Bellini, con la sua scorta di libri. Riusciva a stare in mezzo agli altri estraniandosi dalle loro conversazioni, sempre assorbito dalla lettura. Poi passava dalla libreria Flaccovio, alla ricerca di altri libri. In casa rimaneva la domenica, per tenere lezioni di letteratura a un gruppo di giovani amici: su Shakespeare, Stendhal, Flaubert, Proust. Quell’uomo che aveva rifiutato la disciplina scolastica si faceva maestro per loro: e alcuni sarebbero arrivati, anche per merito suo, alla cattedra universitaria. Solo dopo l’episodio di San Pellegrino gli amici del caffè videro arrivareil principe con un grosso quaderno dalla copertina azzurra sul quale scriveva. Scriveva la vita che si sentiva sfuggire di mano, la storia che lo stava colpendo alle spalle, vendicandosi, in lui, della sua classe. Scriveva “Il Gattopardo”.

Fin dal 1938 il principe aveva pensato a una storia risorgimentale dimettere su carta: una giornata del suo bisnonno a Palermo mentre stavano arrivando le camicie rosse di Garibaldi. Poi erano venuti altri pensieri,la guerra, i problemi economici. Ma ora, animato da quell’incontro con la letteratura italiana, gli antichi fantasmi risorgevano, gli dettavano il grande romanzo. E la figura del suo antenato si profilava forte, al centro. Giulio IV Tomasi condensava in sé la gloria del passato e la rovina del futuro, nella quale il suo ultimo erede sapeva di rispecchiarsi compiutamente.

Di quel romanzo quasi nessuno sapeva nulla, in città. L’autore ne leggeva le pagine a pochi intimi: sembra che non ne fossero entusiasti, tranne la moglie. Solo Giuseppe Tomasi, nel suo disincanto, ci credeva. Quando il libro fu finito, lo dettò a uno dei suoi allievi, Francesco Orlando, che lo battè a macchina in quattro copie. Una andò alla Einaudi, una alla Mondadori. In entrambe le case editrici trovarono lo stesso oppositore: il siciliano Elio Vittorini, forse lo scrittore italiano meno in grado di capire quel libro. Si incaricò lui di scrivere a Tomasi, per motivargli il proprio rifiuto. La lettera giunse a destinazione il 18 luglio 1957, quando all’autore, malato di cancro,restavano cinque giorni di vita. Il principe la lesse a Roma, dove lo avevano trasportato per tentare un’operazione impossibile col professor Valloni. “Peccato”, disse semplicemente dopo aver appreso quella sentenza, per lui più terribile della morte. “Il Gattopardo” si salvò per l’acume di Giorgio Bassani, che allora lavorava alla Feltrinelli e ricevette la terza copia del dattiloscritto, anonima, da Elena Croce. Lesse le prime righe mentre saliva le scale, quando entrò in ufficio era già convinto di avere messo le mani su un libro straordinario. Gli ci vollero molte ricerche per conoscere il nome dell’autore e apprendere che era morto da un anno. Nel 1959, un anno dopo la scomparsa dell’autore, il romanzo vinse il Premio Strega. Nel 1963 Luchino Visconti ne trasse un film. Cosa dire del romanzo di cui non si sia già detto e scritto? “Il Gattopardo” è, tra l’altro, un romanzo che si allinea alle pagine di Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia che contestano il nostro Risorgimento. O, per meglio dire, i risultati conseguiti dall’unificazione della Penisola, visti dalla lente della Sicilia in quel fatale 1860. Uno dei capitoli più significativi riguarda il giorno del plebiscito. Lo scrutinio ufficiale dei voti, che registra a Donnafugata l’unanime adesione degli elettori al regno d’Italia (senza neppure un “no”!), è frutto di brogli e sopraffazioni che non sono di buon auspicio per l’avvenire della nazione. Lampedusa non lesina un giudizio sferzante su questa buona fede tradita: “Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questi si fosse mai presentata.” D’altronde, dopo la caduta del governo borbonico, nonostante la rivoluzione portata dalle “camicie rosse”, i nobili conservano i loro privilegi, al Principone verrà addirittura offerto un seggio senatoriale che egli rifiuta. Il nuovo, e il peggio, è rappresentato dall’avvento di una inedita classe, quella personificata dallo squallido don Calogero Sedàra, che sfrutta i moti liberali, la forza del danaro e la stessa avvenenza della figlia Angelica per arrampicarsi sugli scalini della notorietà, del successo politico e mondano. Leonardo Sciascia, che ha manifestato una lunga insofferenza nei confronti  dell’autore, finirà per apprezzarne la “lucida profezia”, per fare suo l’aggettivo “irredimibile” proposto dal “Gattopardo”. La frustrazione civile lo avvicina all’ironico pessimismo di Lampedusa, che si radicalizza e diventa cosmico nel principe di Salina: l’innamorato degli spazi siderali che proietta sulla società, sulla Storia, insieme al presentimento della propria morte, il declino di una stirpe.

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