Medici scrittori: ANTON CECHOV (seconda parte)

I primi sintomi della malattia erano comparsi alcuni anni prima (“Nel sangue che viene fuori dalla bocca c’è qualcosa di sinistro, come nel bagliore di un incendio”, aveva scritto ad un amico), mentre assisteva ad un famoso processo, in veste di giornalista, nell’autunno del 1884; era stato colto da una grave emottisi: l’inizio della tubercolosi che doveva condizionare la sua esistenza. Per non allarmare i suoi familiari, Cechov li convinse che gli sbocchi di sangue erano dovuti alla rottura di un vaso e per anni,forse proprio perché aveva diagnosticato il male che lo affliggeva, rifiutò di sottoporsi a qualunque esame clinico. Fino alla sua morte, in ancor giovane età, continuerà a sottovalutare, almeno pubblicamente, la sua malattia e a considerarsi in condizioni di salute “quasi buone”. Questo ottimismo era forse accentuato dal pudore dietro cui nascondeva la sua malattia.

Nel 1890, dunque, parte per la Siberia dopo essersi documentato sul viaggio.

Sakalin è un’isola nei pressi della costa siberiana, dove il governo russo cercava di attuare una forma di colonizzazione ad opera dei prigionieri, in gran parte politici. A Cechov viene assicurata ogni collaborazione da parte delle autorità governative, unitamente a precise istruzioni: gli è assolutamente proibito ogni contatto con i prigionieri politici.

 

Il viaggio viene effettuato parte in treno, parte in piroscafo lungo il Volga, parte in carrozza e parte di nuovo in piroscafo sul Pacifico. Nel corso del lungo viaggio la malattia continua a tormentarlo, complice anche il tempo orribile.

Una volta arrivato sull’isola, inizia i suoi studi sulla condizione di vita dei confinati. La maggioranza conduce una vita di stenti. Quelli che si adattano alla nuova esistenza, invece, si procurano qualche lavoro di poco conto e finiscono per darsi al bere, come la gente del luogo.

Cechov trascorre a Sakalin due mesi durante i quali fa il censimento della popolazione, visita ogni abitazione e parla con tutti. I prigionieri sono trattati in maniera disumana, incatenati, puniti duramente. Le donne in prigionia, invece, pur essendo considerate ad un livello inferiore di quello di un animale domestico, stanno addirittura meglio delle donne in libertà che avevano seguito il marito a Sakalin e che non hanno assistenza governativa.

A Sakalin Cechov si rende conto che le teorie umanitarie di Tolstoj (tra i due c’era una sincera amicizia), messe alla prova di una situazione concreta, dimostravano il loro completo fallimento.

Cechov lascia Sakalin nell’ottobre 1890, a bordo della nave “Pietroburgo”; il viaggio di ritorno gli offre l’occasione per visitare Hong-Kong, Singapore, Ceylon. Il 1° dicembre rimette finalmente piede sul suolo russo, a Odessa; prende subito il treno per Mosca. Dopo mesi di massacranti peregrinazioni Cechov è felice di ritrovarsi tra i genitori, i fratelli, gli amici, i libri. Si mette subito al lavoro per aiutare la gente di Sakalin, in particolare i bambini, e raccoglie per loro una biblioteca.

Tre mesi dopo accetta l’invito del suo editore Suvorin per un viaggio in Europa. Dopo una tappa a Pietroburgo, sono a Vienna, a Venezia, Bologna, Firenze, Roma e Napoli. A Nizza e a Montecarlo gioca alla roulette. Poi, come gli capita spesso, il viaggio gli viene a noia. Trascorre la Pasqua a Parigi poi rientra a Mosca e raggiunge la famiglia in campagna, dove pur preso dalle solite incombenze, cerca di concentrarsi sul libro che sta scrivendo sul suo viaggio.

In questo periodo diventa estremamente irritabile: si sente stanco, è a corto di denaro, non ne può più di parenti, conoscenti e pazienti; inoltre attacchi di tosse e capogiri si fanno sempre più frequenti. Ad accrescere la sua irritabilità ci sono anche i genitori: insistono perché si sposi. Queste insistenze lo innervosiscono, anche perché non ha nessuno su cui riversare il suo bisogno di affetto.

Ci sono molte amicizie femminili, in quegli anni, nella vita di Cechov: quelle donne serie e gentili lo ammirano e provano per lui una tenerezza quasi materna e, allo stesso tempo, piena di civetteria che dà fastidio allo scrittore. Cechov somiglia ai protagonisti dei suoi racconti: amano a metà o si difendono dall’amore. Anche Suvorin gli offre in moglie una figlia allora adolescente; “Aspetta cinque o sei anni e poi la sposi”, gli dice. E per dimostrargli che fa sul serio gli offre in dote metà degli utili della sua rivista. Suvorin è molto ricco, tuttavia quella proposta lo disturba e si affretta a lasciarla cadere. Ad accresce il malumore, la stanchezza, la depressione c’è anche la recente morte di suo fratello Nicolaj. Da molto tempo la malattia di Nicolaj causava preoccupazione per tutta la famiglia. Cechov non poteva chiudere gli occchi davanti all’evidenza: suo fratello stava morendo di tubercolosi. Nicolaj pagava il prezzo di un’esistenza assurda: quella giovinezza senza un focolare, né un tetto, in cui correva nella neve con gli stivali bucati, la passione per il vino e le donne.

Cechov e Suvorin avevano la passione per il teatro. Suvorin era, quando gli prendeva l’estro, un autore drammatico. Talvolta si lamentava del mondo del teatro che, diceva, lo prostrava. Aggiungeva però “Non posso allontanarmene. Nel teatro c’è qualcosa che mi attira. Quanto a Cechov, nella frequentazione di attori, nell’aria polverosa delle quinte trovava un alimento di calore e di vita che gli era sempre mancato. Il teatro era per i due amici una grande consolazione. Infine, entrambi provavano verso gli uomini un certo disprezzo; cinico da parte di Suvorin, tenero e disincantato da parte di Cechov. Lo scrittore, al suo ritorno da Sakalin, aveva avvertito intorno a sé una singolare atmosfera di “indefinita malevolenza”. Quella malevolenza aveva molteplici ragioni: la gente  aveva molto amato Cechov, e si era stancato di amarlo. Erano gelosi di lui: aveva raggiunto la celebrità così giovane! Certi critici gli rimproveravano aspramente di considerarsi un genio, quando era solo un “giovane letterato che aveva avuto fortuna”.

Quella freddezza, quell’ingiustizia del pubblico e dei critici, quella sensazione di solitudine, di comprensione, contribuiscono a maturare lo scrittore. E’ in questo periodo che Cechov scrive uno dei suoi migliori racconti: IL REPARTO N.6. Conosciamo l’argomento: in un ospedale di provincia, sporco, tetro, dove regna un infermiere ubriacone e brutale, il medico lascia scorrere le cose, dichiara ai suoi pazienti che su questa terra tutto è relativo, che l’infelicità è la stessa per chi vive nella ricchezza e per chi muore di fame, che si può essere altrettanto liberi in fondo ad una prigione o nella steppa, altrettanto felici su un letto d’ospedale o in un palazzo. Sono belle parole, consolatorie! Ma un giorno, è il medico ad ammalarsi; lo dichiarano pazzo, lo rinchiudono. Viene picchiato dall’infermiere. Soffre. Capisce allora, troppo tardi, quello che altri hanno sofferto per colpa sua. Questo racconto ha molto contribuito alla celebrità di Cechov in Russia; grazie a quel racconto, l’Urss rivendica a sé lo scrittore e afferma che, se fosse vissuto, sarebbe appartenuto al partito marxista. La gloria postuma offre di queste sorprese…

Cechov, però, non è felice; non si sente né compreso né amato. Trova che la sua vita sia inutile. E allora si rifugia in campagna. L’ha sempre amata. Quelle dimore, “poetiche e tristi, abbandonate”, le descrive continuamente nei suoi racconti e prova per esse un gusto funebre e voluttuoso. Gli era capitato, un’estate di alcuni anni prima, di prendere in affitto un piano di una casa quasi in rovina; un’immensa sala con le colonne, nessun mobile, tranne un ampio divano sul quale dormiva, e un tavolo… fin dalla sua giovinezza aveva sognato di acquistare una proprietà. Dal 1892 possedeva una terra: Melichovo.

Tolstoj insegnava che la proprietà è un male. Ma per Cechov è un’immensa gioia essere proprietario! La casa, costruita al centro di un grande spazio deserto, sembrava abbandonata: per i suoi familiari è una grossa delusione. Lui però è soddisfatto di quella dimora isolata, di quello studio tranquillo con tre grandi finestre. Si alza prestissimo e si mette all’opera, lavoro intellettuale ma anche fisico; e questa era per lui una splendida novità. Pulisce da solo il cortile, getta nello stagno la neve alta. In quel cortile avrebbe disegnato un giardino, avrebbe piantato degli alberi da frutta, lo avrebbe adornato di rose. Ben presto il giardino  comincia a prendere forma e vita grazie alle sue cure.Fa lunghe passeggiate, pranzo a mezzogiorno, siesta, e poi, fino a tarda sera, scrive. Ma è anche un medico: si occupa dei pazienti del luogo che lo amano e lo stimano, anche se spesso viene assalito dalla noia e dalla stanchezza. Scrittore, trova alimento per i suoi racconti nello spettacolo di quelle vite miserabili. Dimagrisce, sputa sangue. “La mia anima è molto stanca”, scrive, ma dalle sue sofferenze e da quelle altrui trae vantaggio.

Due lunghi racconti, quasi romanzi, sono stati scritti grazie ai ricordi di Melichovo: I CONTADINI e NEL BURRONE.

Cechov aveva un amico pittore, Levitan. Un giorno, nella primavera del 1892, in campagna, i due amici vanno a caccia. Levitan ferisce, quasi involontariamente, un uccello che cade ai  suoi piedi. Cosa fare? Levitan fa una smorfia, chiude gli occhi e supplica con voce tremante: “Amico mio, finiscilo…”

“Non posso”, risponde Cechov.

L’uccello continua a guardare davanti a sé. Alla fine, Cechov lo finisce. “Un’altra bella creatura amorevole in meno, e due imbecilli tornati a casa e si sono messi a tavola”.

C’era tanta gente in campagna, in quel periodo: musica, lunghe passeggiate, notti tiepide, donne…

L’atmosfera di quella primavera, di quel bel giardino, di quelle notti di luna, la morte di quel povero uccello, tutto questo lo ritroviamo nell’opera IL GABBIANO, che Cechov scriverà poco tempo dopo. Una volta finita la stesura, la legge agli amici: una delusione, nessuno aveva compreso il senso del dramma. Conosciamo la storia de IL GABBIANO. Una ragazza ama un celebre scrittore, vorrebbe diventare un’attrice. Realizzerà il suo sogno che porterà, a lei, soltanto delusione e dispiacere e, all’uomo che l’ha amata, soltanto la morte. Testo tenero, lirico, ma che alla lettura appariva strano, nuovo, incomprensibile. Cechov lo aveva destinato al Teatro Alessandrino di Pietroburgo, in ricordo del trionfo ottenuto lì con IVANOV qualche anno prima. Una grande attrice, la Komissarzevskaja, avrebbe dovuto interpretare il ruolo della giovane donna, Nina. La prima rappresentazione viene fissata per il 17 ottobre 1896.

Cechov non si aspettava un grande successo, era solo in parte soddisfatto della sua opera. Ma sapeva di essere amato e rispettato dal pubblico. Non sarebbe stato un trionfo ma neanche un insuccesso; insomma, una via di mezzo. E invece fu un fiasco. La sala sembrava popolata dai nemici personali di Cechov. Tutti quelli che lo invidiavano, tutti quelli che lui aveva involontariamente messo in ombra, quelli che avevano dovuto cedere il posto in un giornale ad un racconto di Cechov si prendevano la rivincita; e poi c’erano quelli che temevano ogni novità nell’arte e nella vita, gli imbecilli e i finti amici: insomma, un sacco di gente.

Cechov, lasciato il teatro appena calato il sipario, passeggia a lungo per le strade deserte. E’ deciso a farla finita con la scrittura e il teatro.

La delusione e la conseguente depressione probabilmente peggiorano il suo stato di salute. Sa di essere malato; ha la sua famiglia a carico, ha poco denaro, si sente vecchio, finito a meno di quarant’anni. Come avrebbe potuto pensare di avere una donna accanto a lui?

 Durante una visita a Mosca viene costretto al ricovero per emottisi. I medici diagnosticano: tubercolosi polmonare, e gli raccomandano di cambiare il suo stile di vita.

Trascorre l’inverno a Nizza (grazie all’aiuto del generoso Suvorin); si reca spesso a Montecarlo, spera che il gioco della roulette gli porti quell’improvvisa ricchezza che avrebbe risolto le sue preoccupazioni finanziarie.

Rientra in patria, nel frattempo era morto suo padre, in ottobre; gli viene proposto di mettere in scena IL GABBIANO, come opera prima di un nuovo teatro fondato a Mosca dal celebre Stanislavski. Memore dell’insuccesso di Pietroburgo, prima rifiuta, poi finisce per acconsentire. L’opera viene rappresentata il 17 dicembre 1898. E stavolta  sarà un successo, strepitoso.

 Čechov legge Il gabbiano agli attori del Teatro dii Mosca

  Cechov, già dal settembre di quell’anno, si era trasferito a Jalta, in Crimea, dove i malati di petto passavano i mesi invernali. Se fosse stato più “vecchio”, avrebbe accettato la morte: ma allora aveva soltanto trentotto anni, la mente piena di racconti e di drammi, il desiderio di una donna che non aveva mai conosciuto, e sperava di avere ancora quindici anni di vita.Aveva lasciato Mosca di malavoglia: lo trattenevano amici, teatri, ristoranti, biblioteche, librerie, concerti; “ma -scrisse- ho dovuto andarmene da Mosca perché seguito ancora a intrattenere dei rapporti illegittimi con i bacilli”. Sperava nel clima della Crimea, che gli avevano consigliato i medici, sperava che la febbre, i frenetici accessi di tosse, il sapore di sangue nella bocca lo avrebbero abbandonato- sebbene egli non si lamentasse mai della malattia, perché lamentarsi era, per lui, un segno di cattiva educazione. Lì, a Jalta, accetta di  vivere una vita rallentata, contendendo qualche anno, o qualche mese alla morte. I suoi occhi blu-marrone sono ancora chiari, netti, senza ombra. Spesso, a Jalta, il tempo era bellissimo, anche d’inverno, quando Mosca e Pietroburgo erano coperte di neve; Tutto era limpido, asciutto, caldo; tutto verdeggiava. Fiorivano le rose, i garofani, i crisantemi, e certi fiori gialli senza nome. Un giorno, vicino a Jalta, a Kucucoj, vede una casa di quattro stanze, una cucina, una stalla per le mucche, un giardino dove pianta rose, acacie, camelie, gigli.Non rinuncia agli alberi da frutta, mandorli, ulivi, ciliegi, melograni, meli. “Un giardino da dilettanti” lo definisce, ma lo ama. E’ una casa per la vecchiaia che non verrà.

Purtroppo a Jalta c’era anche la noia. Comincia a provare nostalgia per le folle colorite di Mosca e Pietroburgo, le belle donne (“ qui non c’è nemmeno una bella donna”), e i teatri. Fa fatica a scrivere

 perché ha bisogno di respirare un’altra aria. La vecchiaia non verrà ma arriva, forse, l’amore.

Cechov aveva visto Olga Knipper, nell’autunno del 1898, recitare sulle scene del teatro d’arte di Stanislavski due volte, in un testo di Tolstoj e in una ripresa del GABBIANO. Cechov si innamora quasi subito, senza riserve. Si scambiano lettere miti, discrete all’inizio, poi subentrerà la passione.

Olga Knipper aveva otto anni meno di Cechov; non erano molti, ma la tisi aveva rapidamente logorato e invecchiato lo scrittore. Trascorrono un breve periodo a Jalta; in quei giorni Olga si rende conto della visita scomoda e triste di Anton. Si nutriva male, i suoi domestici erano negligenti, le visite dei pazienti disturbavano il suo lavoro e lui non aveva il coraggio di sbarrare la porta. Cechov aveva bisogno di una donna.

L a compagnia del Teatro d’Arte di Stanislavski, intanto, stava ottenendo un successo straordinario.

All’inizio della stagione invernale 1899, a Mosca, si parlava soprattutto di quegli spettacoli: si recitava Shakespeare, Tolstoj, Il Gabbiano, e la  nuova opera di Cechov, ZIO VA NJA, in cui Olga Knipper interpreta il ruolo di Elena. Quest’ultima rappresentazione è un vero trionfo. Intanto, a Jalta, Cechov doveva accontentarsi di leggere le critiche della sua opera, di pensare a quella giovane attrice lontana. Olga, nelle sue lettere incoraggia continuamente Cechov a scrivere, anche se è stanco e svogliato. Riesce comunque a scrivere LE TRE SORELLE.

Prova amore sincero per Olga, ma le sue non buone condizioni di salute lo tengono lontano dal matrimonio, nonostante le insistenze dell’attrice. Alla fine Cechov cede, accetta il matrimonio, a patto che nessuno venga informato prima. Si sposano nel maggio 1901. Poco dopo Cechov ritorna a Jalta, Olga rimane a Mosca.

Sul Mar Nero porta a termine IL GIARDINO DEI CILIEGI; la prima rappresentazione avrà luogo tre anni dopo, il giorno del suo quarantaquattresimo compleanno. Sarà, ancora una volta, un trionfo.

Intanto le sue condizioni peggiorano. Gli viene consigliato dai medici moscoviti la stazione termale di Baden-Weiler, dove si reca con la moglie. Inizialmente le sue condizioni sembrano migliorare, poi, improvvisamente, peggiorano.

E’ una calda notte, quel 2 luglio. Tutte le finestre sono spalancate, ma Anton respira a fatica, e per la prima volta chiede di chiamare un medico. L’albergo è pieno di gente, ma tutti dormono e la moglie si sente  sola e abbandonata. D’improvviso si ricorda di due studenti russi che abitano poco distante. Li sveglia. Uno dei due corre a cercare un medico, mentre Olga spezza del ghiaccio per metterlo sul cuore del moribondo. Lui la respinge: “Non si mette del ghiaccio su un cuore vuoto…”Arriva il medico che gli pratica un’iniezione di olio canforato che non rianima il cuore. E’ la fine. Portano dello champagne, lo scrittore con enorme fatica riesce a sedersi sul letto e, con voce chiara, dice in tedesco: “Ich sterbe” (muoio). Poi prende la coppa, rivolge lo sguardo alla moglie “E’ tanto che non bevo champagne”; lo manda giù tutto, con calma, fino in fondo, poi si sdraia sul fianco sinistro.

Una farfalla notturna, enorme e nera, entra in quell’istante in camera. Vola da una parete all’altra, si lancia sulle lampade accese, ricade dolorosamente, con le ali bruciate, e riprende il suo volo cieco. Poi ritrova la finestra aperta sulla notte buia e scompare. Cechov, intanto, ha cessato di parlare, di respirare, di vivere.

Quando la sua salma viene trasportata in patria, il suo arrivo nella stazione di Mosca avviene contemporaneamente a quello della salma di un generale caduto in estremo oriente. I due cortei funebri si confondono, preceduti da una banda militare. Dopo, dietro alla bara dello scrittore, si muove un corteo di molte centinaia di persone. Tra questi, due cari amici di Cechov: lo scrittore Maxim Gorkj e il celebre cantante Scialapin, entrambi sbalorditi e indignati per l’atmosfera di frivola indifferenza in cui si svolgeva la mesta cerimonia. Qualcuno, nel corteo, parla della intelligenza dei cani, un altro si diffonde sulle comodità della sua casa di campagna, una matura signora che procede sotto un parasole di pizzo dice eccitata ad un conoscente che le cammina vicino: “Oh, era un uomo così simpatico, così spiritoso.” C’è anche chi, dopo un po’, abbandona il corteo per rifugiarsi in un caffè. Scialapin, con le lacrime agli occhi, si mette a imprecare: “E pensare che è per questa gentaglia che lui ha vissuto, ha lavorato, ha insegnato.”

F   I   N   E

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